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Le chiese dell'unità pastorale
Chiesa di
S. Lorenzo
Vista all’esterno, la chiesa appare di primo acchito strutturalmente modesta e insignificante dal punto di vista architettonico. Prestando un po’ di attenzione, distinguiamo le parti originali: elementi pre-romanici di stampo rurale, sul fianco nord affacciato alla strada, con una monofora e una porta arcuate, grezzi conci e tracce di intonaco graffito, e quelle meno antiche: l’abside a “scarsella” di fattura quattrocentesca e l’ibrido stile ottocentesco tra Romanico e Gotico della facciata.
Già da questo primo rilievo, possiamo intuire la lunga storia della chiesa, fondata attorno al Mille e forse da annoverare tra i templi dedicati a san Lorenzo proliferati dopo la vittoria di Ottone I - il 10 agosto 955, festa del Santo - sugli Ungari, che infestavano da anni con razzie e distruzioni l’Europa.
Chiesa di contrada in origine, divenne poi cappella di palazzo dei Besta e loro pantheon, con la sepoltura dei membri della illustre famiglia, per poi tornare, tramontata la loro fortuna, semplice succursale della parrocchia e luogo di sepoltura di canonici e di residenti nella contrada e avviarsi al definitivo declino.
L'interno della chiesa
L’attenzione è subito catturata dalla vivace cromia della pittura murale che si mostra sul fondo del coro, al di là della robusta cancellata posta all’ingresso del presbiterio. Prima di dirigerci d’impeto sotto il dipinto, diamo un’occhiata a questo capolavoro di artigianato rinascimentale, non privo di leggiadri spunti decorativi in ferro battuto, rimasto fortunatamente al suo posto, scampato al pericolo dello smantellamento e della vendita per finanziare i restauri nell’Ottocento.
Ci si accorge intanto che la dipintura ad affresco interessa tutto il vano e il frontespizio della cappella maggiore. Una raffinata decorazione in girali monocromi corre infatti lungo tutto l’arco trionfale con al centro l’immagine di San Lorenzo con la graticola, simbolo del suo martirio, mentre, da un lacerto alla base sinistra, occhieggia la mutila figura di san Bernardino con il consueto trigramma, un particolare iconografico, questo del Santo senese, riscontrabile nelle principali chiese di Teglio, a dimostrazione della profonda sua venerazione, del resto chiaramente manifesta nell’annuale processione penitenziale alle Croci, fatta ancor oggi in suo ricordo sulla montagna alle spalle del paese.
Sulla parete centrale del coro, avvince la scenografica Crocifissione, dipinta nel 1528 da Fermo Stella, uno dei principali esponenti della pittura lombarda del primo Cinquecento. Troviamo la sua firma sulla sinistra dell’ingresso presbiterio, dalla quale, oltre al nome del pittore e all’anno di esecuzione, scopriamo la motivazione dell’affresco commissionato da Azzo II Besta e dal suo patrigno Andrea Guicciardi, cioè il ricordo dei duemila e più morti tellini durante la peste del 1526. Ci chiediamo spontaneamente quale altro soggetto religioso potesse meglio commemorare le vittime di tale catastrofe quanto il dramma del Calvario.
Non certo a caso si scelse come paesaggio dello sfondo - che dovrebbe indicare la città di Gerusalemme – il familiare dosso del castello di Teglio. Infatti, nell’attualizzare nel tempo e nello spazio la morte di Gesù - intento didascalico di tanti simili dipinti dell’epoca - si intese anche legare il sacrificio salvifico di Cristo alla tragedia della comunità. Si chiese dunque al pittore di riprendere dal vero il castello, simbolo per eccellenza di Teglio, per quanto ormai sbrecciato, a causa della distruzione decretata due anni prima dai Grigioni, ma reso ben riconoscibile nel dipinto dalla torre, che è identica a quella tuttora esistente. Purtroppo tutta la parte inferiore dell’affresco, dove erano raffigurati i diversi personaggi ai piedi della croce, è andata completamente distrutta a causa dell’incuria e dei restauri sbagliati del secolo scorso, che ne hanno accelerato la scomparsa. Resta come testimonianza la testa muliebre, dall’elegante acconciatura rinascimentale e dal volto delicato, ripresa in un disegno dal pittore Pietro Martire Rusconi nel 1836. Potremmo conoscere la scena della crocifissione nella sua integrità, se potessimo ritrovare la copia che l’arciduca Ranieri, viceré del Lombardo-Veneto, in visita a Teglio nel 1835, commissionò allo stesso pittore sondriese, quadro che probabilmente egli portò con sé in Austria.
La scena della crocifissione rientra a pieno titolo tra le varie rappresentazioni del dramma del Calvario che, a partire dal Trecento, si diffusero dall’Italia a tutta Europa, sulla scia di un ricercato “spettacolarismo” pieno di fervore in grado di suscitare nell’astante partecipazione e coinvolgimento emotivo, tema preferito da grandi pittori tra cui Giotto, Pietro Lorenzetti e, in seguito, da Gaudenzio Ferrari e dal Luini.
Pur mancando oggi tutta la fascia riferita ai personaggi ai piedi delle croci, dai pochi elementi deducibili da vecchie fotografie, notiamo che la scena non presentava la ressa concitata di persone, per lo più distratte dalle più disparate incombenze, di tanti dipinti coevi.
L’azione principale si svolge, come del resto naturale, nella parte superiore del dipinto, nel cielo su cui si stagliano le tre croci con i tre condannati. Vi riscontriamo il tema, caro alla pittura lombarda, degli angeli dolenti in volo per raccogliere in coppe d’oro il prezioso sangue della Redenzione e quello delle insegne dispiegate nella tragica atmosfera di kermesse popolare. Tra queste distinguiamo il S. P. Q. R. dei Romani, lo scorpione con il richiamo al tradimento, alla morte e alla malvagità degli Ebrei e la mezza luna riferita al pericolo dei Turchi – allora incombente -, ma anche la luna piena, emblema di perfezione, e il grifone, simbolo della duplice natura di Cristo. Vi si associa però un dettaglio iconografico di matrice nordica, presente in Dürer e in Bosch: il diverso destino delle anime dei ladroni, visibilmente reso. Dal “buon ladrone”, crocifisso alla destra di Gesù, si leva infatti un angelo dalla veste candida in volo verso il paradiso con in braccio l’anima in extremis redenta, mentre, sull’altra croce, un grottesco demonio strappa a viva forza l’anima dannata dalla testa del ladrone, il cui viso, contratto dal dolore, si contorce in un orrido ghigno. Domina, come naturale, la grande croce con il corpo di Gesù composto nella morte, abbandonato sul nudo legno, la ferita sanguinante del costato, il volto sereno, ormai senza segni di sofferenza, rigato dal sangue e gli occhi chiusi del “Tutto è compiuto”. Il cromatismo prevalente è quello caldo e passionale della pittura lombarda, perfettamente reso nelle tonalità intense dell’ocra e dei marroni sanguigni.
Non possiamo non ammirare anche la rinascimentale finezza della decorazione dell’estradosso dell’arcata a ogiva che incornicia la scena, motivo che si ripete anche sull’arco delle pareti ai lati, dove a destra, nel piccolo lacerto di pittura rimasto, si individua San Lorenzo con i poveri “tesoro della Chiesa” davanti all’imperatore Decio, assiso in trono sotto un baldacchino.
Nello sguancio della finestra, tra le poche grottesche rimaste, scorgiamo gli stemmi dei committenti: in alto quello dei Besta e sulla sinistra quello dei Guicciardi.
Interessante è la scena affrescata sulla parete di fronte, dedicata al Martirio del Santo. Nonostante i guasti, grazie all’ultimo restauro, l’insieme risulta perfettamente leggibile ed è possibile rilevare alcuni dettagli figurativi. Il martirio di Lorenzo, già disteso sulla graticola, presso la quale un inserviente si presta ad attizzare il fuoco con un soffietto, si svolge su una grande piazza immaginaria che pare avere per fondale, a sinistra, il palazzo dei Besta con i suoi comignoli a torretta e, a destra, quello dei Piatti, sovrastato dal campanile della chiesa pievana. Al centro, sotto un imponente baldacchino, vediamo assiso il giudice davanti a una piccola folla, tra cui, in primo piano un aitante armigero in posizione frontale. Scorgiamo infine in alto l’angelo in volo recante la palma del martirio.
Avvicinandoci alla cancellata, sempre sul lato sinistro, troviamo due santi: Rocco in vesti di pellegrino e Cosma (o Damiano) riccamente paludato da medico con la boccetta e il bicchiere della medicina nelle mani, protettori entrambi degli appestati.
Non possiamo ignorare, lasciando il presbiterio, i bei volti espressivi degli Apostoli, raffigurati in accesa cromia nei medaglioni del sottarco con il nastro delle proposizioni del Credo, e la copertura a crociera, dove al centro di una simbolica stella a otto raggi, rievocante la volta celeste con i suoi astri, appare nel disco solare il Volto di Gesù, centro dell’universo.
La navata, divisa in tre campate, aveva un tempo volte decorate da grottesche, delle quali non resta che un piccolo frammento indicante l’anno di realizzazione della pittura – 1543 -, essendo stata interamente rifatta la copertura nel corso del restauro ottocentesco.
Sono sicuramente precedenti a questa data i due riquadri di intonazione votiva a fianco della porta laterale, in parte cancellati dall’umidità, in cui ravvisiamo, nel primo, la Madonna con il Bambino e San Lorenzo e, nel secondo, un Santo Vescovo (forse Gottardo) e nuovamente una Madonna con il Bambino in grembo.
Gianluigi Garbellini
Istituto Studi Storici Valtellinesi
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