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Chiesa di
S. Omobono

Singolare è la sua posizione a lato del nucleo abitato, ma indiscusso centro del paese, posta a margine del breve pianoro, quasi a picco sulla sponda del torrente Caronella che scorre profondamente incassato nel solco ghiaioso che, poco sotto, affacciandosi sulla valle dell’Adda, si trasforma in una stretta forra intagliata di netto nelle pareti rocciose del pendio.
Vista dalla facciata che dà sulla piazzetta, la si potrebbe ritenere un edificio del secolo scorso senza uno stile architettonico ben definito, poiché in effetti il fronte si presenta estremamente lineare e pulito, segnato unicamente da quattro piatte paraste, da un cornicione aggettante e da un classico timpano triangolare. Il solo motivo ornamentale è dato dal portale, datato 1723, in pietra con frontone spezzato e una nicchia con volta a conchiglia e l’immagine a tutto tondo del santo titolare. Per cogliere l’insieme della composita struttura è necessario il giro dell’edificio, portandoci, attraverso il passaggio coperto alla destra della facciata, fino alla parte absidale. Capiremmo subito in tal modo i travagli di una costruzione di fondazione antichissima, profondamente manomessa nel corso dei secoli. 

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Prestando un po’ d’attenzione potremo rintracciare le orme del primitivo tempio: antiche parti murarie, vani tamponati, le arcate semidistrutte del porticato prospiciente la valle, una serie di archetti ciechi di matrice medievale e le solide basi del campanile vagamente romanico, alzato successivamente di alcuni metri con nuova cella campanaria e nuova cuspide.
“Rude e antica” definì del resto fin dal 1697 il vescovo Bonesana questa chiesa, la quale probabilmente già aveva subito qualche ristrutturazione. Gli interventi più decisivi furono però attuati nella seconda metà dell’Ottocento al tempo del parroco Giovanni Ambrosini. Nel 1885, su progetto di Antonio Iuvalta, con il contributo di volontari del luogo e maestranze di muratori si procedette alla costruzione delle volte, della facciata e all’intonacatura di tutte le pareti per conferire all’interno un volto meglio corrispondente ai desiderati canoni estetici per i luoghi di culto, secondo il gusto trionfalistico del tempo. Conclusi i lavori, il 6 maggio 1893 la chiesa venne solennemente consacrata dal vescovo diocesano Andrea Ferrari - oggi beato -, “giorno veramente caro ai parrocchiani di Carona, del quale se ne celebra l’anniversario nella prima domenica di maggio d’ogni anno”, annota il parroco Apollonio.
Della sua fondazione, che si vuole avvenuta nell’Alto Medioevo con dedicazione alla Madonna, nulla di certo si conosce, come del resto è ignota la data della intitolazione a Sant’Omobono, genericamente riferita al XII secolo.
Data la lontananza dalla pievana di Sant’Eufemia di Teglio, fin dal 1310, secondo le cronache del parroco Apollonio, la comunità aveva chiesto al vescovo che la chiesa fosse eretta in parrocchia autonoma, concessione avvenuta nel 1425.  Dagli atti della visita del vescovo Gerardo Landriani del 1444-45, si apprende che la chiesa di Sant’Omobono poteva contare su un “beneficiale”, cioè un sacerdote, incaricato dalla curia vescovile e mantenuto a spese della comunità. Tra le sue mansioni, aveva facoltà di somministrare il battesimo senza doversi recare nella lontana sede della pieve.
Dalle annotazioni del vescovo, risulta che il prete di allora, tale presbiter Silvester de la Porta, per altro padre di più figli avuti dal concubinato e privo delle fondamentali conoscenze del credo cattolico, dichiarò, in risposta alle domande del visitatore, di non poter conservare nella chiesa “il Santissimo Corpo del Signore” mancando il tabernacolo o altro vano per riporlo, affermazione quest’ultima che indusse il vescovo a ordinare agli uomini di Carona di procurare entro sei mesi un tabernacolo con relativo lume sempre acceso a spese della comunità, pena, qualora l’ordine venisse disatteso, il divieto di celebrare la messa nella chiesa e l’impedimento dell’ingresso nel tempio a tutti coloro che non si fossero confessati e comunicati.
Nomina la “chiesa parrocchiale dedicata a sant’Omobono” il vescovo Ninguarda nella visita pastorale del 1589, il quale afferma che la comunità conta circa duecento famiglie tutte cattoliche, ma nulla riferisce riguardo all’edificio sacro, al pari del convisitatore Traiano Spandrio a Carona per conto del presule comense il 21 ottobre 1589. Il vescovo Torriani, in visita nel 1668, ordina l’erezione canonica del “Monte di pietà consistente in 22 some di segale da imprestarsi ai poveri”, istituito da molti anni e “detta le regole del buon governo e mantenimento”, segno evidente che l’aspetto caritativo era tenuto in considerazione dalla comunità parrocchiale.
Lo zelo dei parroci e l’impegno dei fedeli hanno consegnato al tempo un luogo sacro decoroso, come possiamo notare non appena varchiamo la soglia della chiesa. Ci accoglie infatti un ambiente molto accogliente e ben curato in ogni suo dettaglio, nonostante la discesa a valle dei parrocchiani.

L'interno della chiesa

L’unica navata, coperta da volte raggiunte da alte lesene, dilata le sue pareti nelle due cappelle laterali e nel presbiterio disegnando il perimetro di una croce, quasi fosse un edificio a pianta centrale. Attrae subito l’attenzione l’altare maggiore che scenograficamente sciorina i suoi ori riempiendo di luce il presbiterio, verso il quale spontaneamente ci incamminiamo per meglio ammirare l’inaspettata bellezza.
Avvicinandoci, ci rendiamo conto che l’altare è costituito da parti diverse e non coeve. Settecenteschi nella struttura e nella decorazione a fitti motivi floreali e a girali risultano la mensa con il paliotto raffigurante il Mistico Agnello (ora staccato dal contesto con funzione di altare rivolto al popolo), il tabernacolo, i gradini per i candelieri e gli angeli ceroferari dalle grandi ali spiegate.

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Notevoli per finezza le figure angeliche attorno alla portella del tabernacolo, sostituita in epoca recente da un manufatto in argento e oro con l’immagine di Gesù con le braccia aperte in gesto di accoglienza. Di tutt’altro stile è il piccolo tempietto cinquecentesco a base esagonale, probabilmente sopravvissuto allo smembramento dell’altare precedente, che presenta accostate a ciascun spigolo del primo ordine eleganti colonnine rastremate, racchiudenti finte nicchie con arco a tutto sesto ornate sul davanti dalle immagini in rilievo del Cristo sofferente tra due angeli adoranti e da due dipinti, quasi in miniatura, di fine esecuzione, raffiguranti Sant’Omobono e San Giovanni Battista. Sulla sommità del secondo ordine, simile al tamburo di una cupola in muratura, si libra il Risorto, motivo che caratterizza a partire dal Cinquecento tutti i cibori.
Di grande effetto è la elaborata cornice dorata del XVIII secolo affissa alla parete di fondo del coro a completamento dell’altare. La pala racchiusa, di tonalità piuttosto cupe trattandosi di una tela del Seicento, viene perfettamente esaltata dall’oro rutilante distribuito sugli intagli della cornice, messi in rilievo dal fondo azzurrino simulante il marmo di alcune parti dell’imponente manufatto.
Il quadro rappresenta l’Ultima Cena attorno a un tavolo rotondo nella penombra di una sala aperta su un paesaggio notturno debolmente rischiarato da una falce di luna. Gesù, al centro della scena, è colto nell’atto di intingere il pane o di prelevare il cibo con la mano sinistra nel grande piatto di peltro e la mano destra alzata mentre stringe un pezzo di pane. Il suo volto e il braccio sinistro sono illuminati dalla luce che entra nella stanza e si riverbera sui visi attoniti e spaventati degli apostoli. Egli sta pronunciando probabilmente le fatidiche parole: “Questa notte uno di voi mi tradirà” provocando sgomento nei dodici. Simon Pietro alla sua sinistra sta dicendo “Sono forse io, Signore?”, Giovanni posa il suo capo sul petto del Maestro, mentre Giuda Iscariota, in primo piano con la nota dei conti sul tavolo, tiene stretto con la destra il gruzzolo dei trenta denari del tradimento. Tutta la scena, che sembra ripresa dall’alto, è animata dalla gestualità delle mani e dallo stupore misto a paura dipinto sui volti barbuti dei commensali. L’ignoto pittore sa rendere perfettamente l’atmosfera di smarrimento e di dolore attraverso le tonalità scure tipiche del “tenebrismo” secentesco che qui presenta i personaggi con colori opachi su sfondo cupo, riservando luminosità e vivacità di tinte solo ad alcuni particolari.
In origine, questa tela si trovava nell’oratorio della Confraternita del SS. Sacramento, da dove venne rimossa nel 1907 per collocarla al posto d’onore sull’altare principale nella splendida cornice dorata.

Notevole per realismo il Crocifisso che domina dall’arcone trionfale la navata. Il martoriato corpo di Gesù, ormai privo di vita, pende drammaticamente dalla croce, lasciando gravitare tutto il peso sul suppedaneo, dove un unico chiodo trafigge entrambi i piedi. Si tratta probabilmente di un’opera quattro-cinquecentesca, ridipinta nell’Ottocento.
Peccato che sia stata rimossa e alienata la bella cancellata in ferro battuto che chiudeva fino agli interventi del 1885 il presbiterio, simile per lavorazione – afferma il parroco Apollonio - a quella elaboratissima dell’altare della Madonna della chiesa di Caprinale.
Semplice per struttura il pulpito ligneo a base poligonale del XVII secolo, che vediamo sulla parete sinistra munito di “cielo” con intagli floreali e di parapetto con cinque lisci pannelli separati da piccole lesene con telamonio sorreggenti il cornicione.
Visitiamo ora la cappella laterale sinistra dedicata alla Madonna del Rosario. Prima ancora di prendere in considerazione l’altare, si è attratti dalla parte muraria con la bassa volta a crociera sorgente dai costoloni uscenti dai quattro angoli della cappella a base quadrata, che rivela una struttura pienamente quattrocentesca ormai quasi libera dal tradizionale arco a ogiva del Gotico. Le arcate tendono infatti all’apertura a tutto sesto come ben si nota sulle pareti. La parte più interessante è costituita dai lacerti di affresco che sono riemersi grazie al distacco dell’intonaco steso quando fu collocato l’altare nel XVIII secolo. La parte riaffiorata torna nell’insieme leggibile. Ai lati dell’ancona, pressoché liberati dall’intonaco, sono apparsi gli episodi salienti della Vita della Vergine in figure dai tratti eleganti e decisi e brillante cromia nonostante lo spolvero di calce che ancora li ricopre.

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Sulle vele della volta si indovinano le immagini dei Padri della Chiesa e degli Evangelisti con i rispettivi simboli e, all’incrocio dei costoloni decorati da una greca, i raggi del sole simboleggiante Cristo, “Sole di giustizia” e centro dell’Universo. Né mancano bellissime figure monocrome di gusto rinascimentale di delicato disegno, poste alle basi della volta. Dai pochi elementi venuti alla luce, ci rendiamo perfettamente conto del pregio artistico di questo ciclo, uno dei più importanti della zona che merita di essere recuperato e restaurato liberando tutta la parete di fondo, ora in gran parte occupata dall’imponente ancona dell’altare.
È questa un manufatto ligneo del tardo Seicento proveniente probabilmente da altra chiesa e qui sistemato, come indicano alcune parti strutturali dello stesso modificate per l’adattamento nella cappella.
Ai lavori necessari alla nuova collocazione forse si riferisce il restauro effettuato nel 1775 dal sondriese Pietro Mazza, ricordato dalla scritta che leggiamo sul lato destro della mensa dell’altare.
L’opera ha indubbie pretese scenografiche, compromesse però dall’incombere della volta che ne sminuisce il risalto. Attorno alla nicchia con la statua della Madonna con il Bambino, entrambi cinti da corona, si sviluppa un apparato architettonico non privo di solennità con lesene e fastigio ornati da figure angeliche e da vari intagli dorati che spiccano sul fondo, laccato in modo da simulare il marmo rosato con venature verdastre.
È bene ricordare che la statua della Vergine con il Bambino non è l’originale. Essa “in stato deperente e di nessun effetto artistico” - annota il parroco Apollonio - fu sostituita nel 1911 con l’attuale in legno nell’approssimarsi della inaugurazione della nuova strada carrozzabile terminata nel 1912. Per l’esposizione in chiesa nelle feste mariane della nuova statua fu donato dal signor Bonolini residente in San Giacomo, ma originario di Carona, un artistico trono dorato.
Notevoli per il delicato intaglio sono il tabernacolo con il fregio dorato e il Bambino Gesù effigiato sulla portella e il cartiglio sul fronte della mensa con l’immagine della Vergine tra i santi Caterina e Domenico.
Nella cappella di sant’Antonio Abate, posta di fronte, simile per struttura a quella della Madonna, ammiriamo un’ancona secentesca lignea di buona esecuzione con colonne dal capitello corinzio, sul cui fusto si avviluppano simbolici tralci con foglie e grappoli dorati. Testine d’angelo e girali coperti d’oro decorano la base e l’architrave su cui si alza il frontone spezzato con la statuetta dell’Eterno Padre al centro.
L’altare è dedicato a sant’Antonio Abate, come chiaramente indica la pala raffigurante il Santo penitente, dipinta nel 1622, data che leggiamo nella scritta riportata sulla pagina del Vangelo a lato dell’eremita in caratteri latini. Tradotta essa suona: “Se vuoi essere perfetto, va’ e vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo. Vieni e seguimi. 1622”.

Non mancano nella chiesa, che fu parrocchiale fino a pochi decenni fa e ora è unita alla parrocchia di Tresenda, altri arredi interessanti. Notevoli sono, a esempio, le statue lignee della Vergine e dei santi Paolo e Giovanni Battista che componevano il trittico di qualche altare, la copertura in noce del fonte battesimale del XVI secolo dalla forma di tempietto a base esagonale con riquadri decorati a tarsie geometriche e lesene e la cupoletta sormontata dalla statua del Battista finemente intagliata. Non meno artistico è uno dei due confessionali, quello che, per la singolare struttura del suo fronte, ricorda un portale del Settecento e si distingue per l’apparato decorativo ricco di bizzarri motivi tra cui due mascheroni visti di profilo con chiara funzione apotropaica per tenere lontano il male dal luogo destinato alla riconciliazione con Dio.
Diamo infine, nell’uscire dalla chiesa, uno sguardo al quadro dalla cornice dorata, appeso sulla controfacciata, raffigurante un santo vescovo, forse san Gottardo o sant’Abbondio.

Gianluigi Garbellini
Istituto Studi Storici Valtellinesi

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